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di Luca Boschi
Percorsi n.4,
Edizioni Il Penny (04.2004)
La prima volta che sento parlare di Corrado come fumettista (ma il suo nome era già circolato come illustratore, pubblicitario e non) è da Giovan Battista Carpi, che nella vecchia, onorata sede della redazione di “Topolino”, in Via Dante a Milano, mi spalanca sotto gli occhi una cartellina piena di tutto un po’: schizzi a matita, vignette sparse seminchiostrate, delicate illustrazioni ad Ecoline. “E’ un autore di Roma con uno stile già formato, che cercherà di piegarsi a Disney” mi dice, più o meno. Sono i primi mesi del ‘89, e il grande ufficio “aperto” con enormi tavoli luminosi e una scrivania dove Carpi tenta di lavorare, resistendo alle continue distrazioni e richieste che gli vengono dall’esterno, è un porto di mare, disegnare sul serio è una bella impresa, se non a tarda sera, quando finalmente si sono affrancati quasi tutti dalla schiavitù del lavoro e, quando questo turbine di persone è uscito dalla porta ci si può concentrare. Il Maestro ligure è impegnato nel reclutamento di nuovi talenti per quella che sarebbe diventata, di lì a non molto, la famosa Accademia Disney. Nel giro di qualche mese Mastantuono fornirà all’azienda del Topo dalle orecchie a disco un ampio numero di tavole, di disegni per copertine, anche un paio di storie, fra cui la prima, Zio Paperone e l’unica giovialità, che nell'estate del '90 esce sul n.1805 di “Topolino”, con i testi di Fabio Michelini. Se in queste sue prime tavole l’ispirazione all’opera di Giorgio Cavazzano balza subito agli occhi (con l’aggiunta di un inedito twist espressionista), l’impronta personale di Mastantuono si manifesta già in modo chiaro specie nei personaggi secondari, svincolati da rigidi modelli preesistenti. Sono figuranti della specie canina, tagliuzzati di rughe e inclini alla smorfia, spesso muniti di basette e baffoni alla Pedrito el Drito, con dentature evidenti e posture estremizzate. Ma nelle tavole di Mastantuono non mancano nemmeno i richiami più classici alla scuola italiana, riferiti in parte, specie nelle sue prime storie, proprio al Maestro Carpi. Ai suoi strali e ai suoi correttivi, Corrado può ripararsi più di altri colleghi perché troppo distante territorialmente dalla Disney, operando nel suo studio romano. Quindi, trova il modo di personalizzare a piacere le sue prove grafiche dei primi anni Novanta. Velocissimo, macina una storia dopo l’altra, lavora l’intera giornata, quando esce in pubblico sfuggendo alla morsa degli impegni, ha spesso l’aria stanca di chi ha “staccato” da poco.
Caro Corrado, sei a ragione considerato uno dei disegnatori più versatili d’Italia, per la facilità con la quale passi dal genere “naturalistico” a quello comico. Ne sei consapevole, immagino…
Faccio fatica a inquadrarmi come realistico o umoristico o grottesco. Sono un disegnatore e ho il privilegio di fare cose molte diverse tra loro, così non rischio di annoiarmi.
Parlaci del tuo primo contatto con Giovan Battista Carpi.
Arrivò una telefonata nella primavera del 1989. Risposi sgarbato. Ero stanco, avevo lavorato duramente e quella telefonata arrivava inopportuna. “Una scocciatura”, pensai. Dall’altra parte del filo una vocina si presentava, con discrezione, con eleganza. Era lui, Giovan Battista Carpi. Stetti zitto, ma qualcosa dovevo pur dire. “Carpi? Quel Carpi?”. Sorrise. Mi spiegò che la Disney cercava disegnatori e gli era stato recapitato del mio materiale dalla Mondadori che lui, bontà sua, trovava interessante. Di lì a poco, iniziai a collaborare con la Disney e mai dimenticherò le affettuose correzioni che Carpi mi impartiva per telefono. “Nella terza vignetta di pagina quattro, il becco di Paperino è troppo lungo. Accorcialo di un paio di millimetri”.
Quando hai cominciato a distaccarti dalla linea “classica” per avvicinarti a quella di Giorgio Cavazzano, per poi divenire “Mastantuono puro”?
I passaggi sono talmente sfumati, che è realmente difficile individuare il momento dei cambiamenti. Cavazzano è un disegnatore straordinario, era impossibile che inizialmente non condizionasse la mia maniera di interpretare Disney.
Quando vi siete conosciuti un po’ meglio, avete mai parlato con Cavazzano di questi tuoi esordi, o anche di questioni più tecniche, come l’impostazione delle tavole, o la grafica dei personaggi?
Giorgio è una persona troppo educata per manifestare una qualsiasi forma di rimostranza ma so che, all’inizio degli anni novanta, provava un certo fastidio di fronte all’esercito di esordienti che aveva iniziato a imitarlo. Ora, quando ci si ritrova, seduti a tavola o a passeggio tra degli stand, cerco ancora di carpirgli qualche segreto e lui, come tutti i grandi, condivide quello che sa con generosità.
Più volte hai riconosciuto come tuo primo, vero Maestro il grande Niso Ramponi, meglio conosciuto con lo pseudonimo di “Kremos”.
Ramponi, nel periodo in cui insegnava nella mia classe la tecnica del cartone animato, aspettava solo di andare in pensione. Generazioni di alunni indolenti e superficiali gli avevano tolto ogni entusiasmo. Ma che bello veder roteare la matita in quella mano e quanta invidia per quell’oblò perfetto accennato con due colpi di grafite. Ogni segno era una lezione d’arte, ogni schizzo un monumento al suo talento immenso. Non gli ho staccato mai gli occhi di dosso e con gli occhi ho rubato tutto quello che ho potuto. Tutti dovrebbero ammirare, almeno una volta, le spettacolari copertine a tempera che realizzava per il Travaso. Quasi tutto quello che so fare lo devo alle ore passate a guardare tutto quello che faceva Ramponi e al materiale che usava. Immagino che pochi sappiano cogliere la differenza tra lo schedario e la Cotton, tra il Bristol e la Schöeller, tra il Fabriano e la pergamena. Nella mia vita professionale, Ramponi è quello che più ha contribuito a chiarirmi le idee, la scelta dei cartoncini a confondermele.
Tu come ti orienti, con questi strumenti di lavoro? O meglio, come fai ad abbinare dei cartoncini alle esigenze che ti si presentano ogni volta? Li scegli in base alla loro “tenuta”, a come possono farti scorrere con facilità il pennello mentre inchiostri? Dacci qualche parametro.
Sono orientato verso tecniche classiche: pennino, pennello, china. Negli anni ho fatto scelte radicali che poi ho radicalmente cambiato. La combinazione degli elementi di lavoro è fortemente instabile. Io cerco ogni giorno l’alchimia giusta, la sinergia degli elementi nella proporzione che la ottimizzi. Divento matto. Un cartoncino risente dell’umidità, una boccetta di china della densità, un pennino cambia il proprio segno a seconda della superficie del foglio, della temperatura, del tempo, un pennello impazzisce, forma una doppia punta ingestibile, avvizzisce e muore. C’è stata la stagione dei bristol. Ci disegnavo i fumetti realistici che tenevano bene sia la china che il colore. Poi improvvisamente la cartoleria dalla quale mi servivo cambiò fornitore, o forse è lo stesso fornitore che cambiò sistema di produzione. Non lo so, ma sta di fatto che sul nuovo bristol la china prendeva male, si ribellava, si ritirava. Passai con sospetto alla Favini poi alla Fabriano, soprattutto per Bonelli. C’è stata la stagione della china Windsor & Newton perché costava di più e aveva boccette bellissime poi quella della Pelikan, duttile e fluida. C’è stata la stagione dello Schoeller-Durex che diventò introvabile, soppiantato dallo Schoeller-Hammer, più morbido, più abrasivo…Cambiai tutte le matite. Al posto delle morbide, le dure e al posto della dure quelle ancora più dure. Dieci minuti l’anno mi ritrovo con il pennello perfetto, la china diluita come meglio non si potrebbe e il cartoncino che non da brutte sorprese di trama o d’umidità e…disegno come un dio pagano. Dieci minuti, meno di mezza vignetta l’anno.
Soffermiamoci ancora su Niso Ramponi. Tu lo osservavi lavorare e cercavi di carpirne i segreti? O ti dava delle dritte, ti faceva capire dove sbagliavi, ti correggeva…? Un po’ come faceva Jijé con il suo giovane assistente Jean Giraud, che sarebbe divenuto Moebius…
Guardavo quello che faceva e assimilavo. Non mi ha mai corretto nulla per umiltà e pigrizia. Sarà da ricercarsi nella sua flemma il motivo per cui non diventerò mai un Moebius ma rimarrò mortale.
Ramponi era anche un grande disegnatore di donnine. Per il giornale satirico “Il travaso delle idee”, molto popolare negli anni del dopoguerra, si firmava “Kremos”, poi a un certo punto della sua carriera, cominciò a firmarsi “Niso”. Che cos’era accaduto?
Di questo fatto ho letto uno strano commento, fatto dal suo collega satirico Guglielmo Guastaveglia, in arte solo “Guasta”, che del “Travaso” era direttore. Scrive nella sua enciclopedia degli autori satirici che per ovviare a una incresciosa omonimia con un altro autore di nome Kremos, Ramponi decise di firmarsi col suo nome di battesimo… non so di più.
Puoi accennare al primo tuo periodo di attività come professionista? Ho una tua videocassetta, con il tuo vecchio logo a forma di lampadina, nella quale radunavi le tue prime animazioni pubblicitarie. Con chi lavoravi, a Roma, e in che modo, su quali temi?
Era il 1980 quando, a diciasette anni, venni assunto all’Ital-studio di Italo Burrascano come animatore grazie proprio a una segnalazione di Ramponi. In questo studio imparai a fare un po’ di tutto: story-board, scenografie, diapositive, marchi, illustrazioni, oltre naturalmente ai cartoni animati, motivo per il quale ero stato arruolato. Nell’85, sempre continuando il lavoro con lo studio, cominciai a realizzare in proprio piccole animazioni per le emittenti private. Un periodo irripetibile, pieno di energia ed entusiasmo. Arrivavo a disegnare diciotto ore al giorno…uno zombi, ne pago ancora le conseguenze!
Da piccolo, come molti ragazzi della tua generazione, sei stato rapito dai fumetti. Qual era il tuo personaggio preferito? Quale la serie?
Geppo, Gianconiglio, Paperinik, Braccio di ferro, Hulk… ma un solo personaggio mi ha fulminato veramente…l’Uomo Ragno! Pur non essendo mai stato un collezionista, posseggo l’intera serie Corno fino al n.250. Del tessiragnatele collezionavo tutto, strisce giornaliere, gomme da masticare, poster. Arrivai a convincere mia mamma a cucire il suo vestito per il mio pupazzo preferito di allora, Big Jim. Ora, su un altarino, di fronte al tavolo da lavoro, campeggia un disegno originale della striscia quotidiana dell’Uomo Ragno disegnata da John Romita, doveroso tributo per il più accattivante dei disegnatori Marvel. Di personaggi da serie televisive a cartoni invece ce ne sono molti, un esempio su tutti, il primo, il più grande, Atlas Ufo Robot.
Le prime tue storie a fumetti che ho letto appartengono al ciclo Cargo Team, che veniva pubblicato a episodi dalla Comic Art. Cosa ricordi circa la nascita (e l’esecuzione) di quella serie?
Nel ‘91 Rodolfo Torti era il direttore artistico e Roberto dal Prà supervisore letterario della ComicArt. Insieme controllavano tutto il materiale nuovo che arrivava in redazione e vagliavano giovani autori e serie nuove. Capitò così che un esordiente, Arcangelo Stigliani, e un quasi esordiente, io, per un paio d’anni demmo vita a Cargo Team, serie fantascientifica con grandi ambizioni limitate dall’inesperienza di entrambi. Mi divertii molto a disegnarla anche se all’inizio dovetti misurarmi con la scrittura copiosa di Stigliani che concedeva poco spazio al disegno. Quando finalmente aggiustammo entrambi il tiro venne sospesa. La casa editrice, dopo un’importante flessione di vendite, interrompeva la produzione di materiale nuovo e decideva di continuare solo le pubblicazioni estere. Amen.
Vi si notava una certa ascendenza dalla linea americana classica e dalla lezione di Jordi Bernet?
Di Bernet, come di tutta la scuola spagnola e argentina, Font, Ortiz, de la Fuente, ho sempre amato la gestione dei bianchi e neri, fondamentale per la riuscita grafica di una tavola. A questo riguardo il grande Alberto Breccia ne spiegava l’uso nel fumetto in maniera geniale: “Bisogna mettere il nero dove c’è il bianco e il bianco dove c’è il nero”. Paradossale quanto volete ma l’equilibrio tra queste due negazioni del colore è alla base della filosofia del fumetto. Quando se ne carpisce il segreto l’opera diventa immortale.
Chi consideri i tuoi disegnatori di riferimento, almeno nel primo periodo della tua attività?
Sono tantissimi gli autori che ho negli anni amato: Scarpa, Cavazzano, Carpi, Jacovitti, Magnus, Franquin, Quino, Nine, Uderzo e Pazienza, Romita, Magnus, Milazzo, Manara, Breccia Senior, Mandrafina, Zaffino, Bernet, Moebius.
Il tuo primo contatto con la Bonelli è avvenuto con una illustrazione per la mostra Ridere di Paura, nel ‘93. Dalla redazione mi chiesero i tuoi recapiti, perché il tuo stile piaceva moltissimo ai dirigenti della Bonelli, in particolare a Renato Queirolo. Che cosa è accaduto, dopo? Hai dovuto calibrare una nuova grafica “alla Mastantuono” appositamente per un format popolare bonelliano?
Quella con la casa editrice Bonelli è stata un’altra sfida difficilissima. Fino a quel momento, per la ComicArt, avevo sviluppato un tipo di segno graffiato. Amavo suggerire più che raccontare. Ora, invece, dovevo confrontarmi con un lettore diverso. Il lettore bonelliano avrebbe accolto con indignazione le mie sperimentazioni. Dovevo rivedere tutto. Con tanta pazienza e con l’aiuto di Queirolo, ho messo a punto negli anni un tipo di disegno che cerca di sposare appieno le esigenze della casa editrice, ma senza snaturarmi.
Queste doverose revisioni hanno, a loro volta, interagito con la tua linea grafica “libera”? Di solito un autore porta sempre con sé tutto il bagaglio delle sue esperienze, riverberandole sul prossimo lavoro. Così, per fare un esempio illustre, le tavole di Blueberry del Moebius passato attraverso Il garage ermetico di Jerry Cornelius, sarebbero state diverse senza l’esperienza di “Métal Hurlant”…
Ho la presunzione di cercare di tenere isolate le mie diverse vite creative. Maniacalmente separo nella mia testa anche il materiale e gli strumenti che servono per i diversi lavori. Se inizio a disegnare la vignetta mensile per la rivista Tal-dei-tali col pennarello e carta da lay-out continuerò ad usare lo stesso stile e gli stessi identici materiali per tutto il periodo del lavoro, anche per anni. Ma il condizionamento c’è. Le contaminazioni sono inevitabili. Quel segno sperimentato con successo nel disegno realistico cambia e modifica in maniera impercettibile ma determinante anche il disegno umoristico.
Come sei entrato in contatto con Gianfranco Manfredi, a proposito di Magico Vento?
Attraverso il curatore della serie. Sempre lui, Queirolo.
E com’è avvenuta l’interazione con Manfredi? E’ uno sceneggiatore meticoloso ed esigente, o ti lascia molto spazio?
Avevo collaborato con lui già in un albo per Nick Raider (La rosa gialla del Texas, n.121 /06.1998) e mi ero trovato a mio agio. Dopo le storie per Magico Vento, Manfredi è l’autore Bonelli con il quale ho più collaborato. Per mia fortuna non è di quelli che si accanisce in descrizioni rigorose. Lascia sufficiente libertà d’interpretazione. Forse eccede con la richiesta di figure intere dall’alto. Quando posso cerco di accontentarlo ma il più delle volte, dopo averci ripetutamente provato, devio verso soluzioni a me più gradite.
Quali sono gli aspetti più positivi e soddisfacenti della partecipazione a una serie come Magico Vento che è molto apprezzata dai lettori e dalla critica, e che può contare su uno staff di disegnatori davvero eccellente?
Stai scherzando? Nessuno! Affrontare un fumetto western significa conoscere alla perfezione ogni singolo oggetto da disegnare ricercando all’infinito immagini e foto del periodo. Anche le atmosfere polverose sono difficili da rendere. Lo sporco, il sudore, il sacrificio dei primi pionieri deve sgorgare convincente dalla pagine, senza compiacimenti grafici, senza esitazioni di sorta. Un inferno! Ma devo ammettere che Magico Vento è riuscito a coinvolgermi a tal punto da farmi dimenticare la fatica. Diventare il copertinista della serie è quanto di più bello mi poteva capitare.
Se non erro, la tua prima storia pubblicata per la Bonelli è un episodio breve di Nick Raider, uscito come supplemento sulla rivista Amico treno. E’ così?
In realtà, la prima storia che ho fatto per la Bonelli è stata Un uomo nel mirino, per la serie mensile Nick Raider (n.74 / 07.1994 / testo: Claudio Nizzi). Nel rivedere quelle pagine, quasi non mi riconosco… Ma non sono proprio malvagie.
Cosa ti appaga maggiormente, nel disegno di una tavola, di una storia? Dove trovi più difficoltà e dove più gusto?
La difficoltà più grossa rimane sempre la documentazione. Sono pigro e tendo, dove posso, a sopperire con la fantasia. Non dovrei. Invece, mi piace molto passare da un genere all’altro, mi rinnova l’entusiasmo.
Prima di sperimentarla per Topolino, la tua vena di sceneggiatore era già molto “pressante”? Penso alle vignette satiriche che realizzavi per la ComicArt…
Mi è sempre piaciuto scrivere. Esordii con dei racconti autoconclusivi per la ComicArt, per poi proseguire con una serie a colori per un’altra rivista della stessa casa editrice, L’Eternauta. La serie si chiamava Buzzer & Todavia (-Il droppo, ComicArt n.91 / 05.1992; King Kong la grande scimmia, ComicArt n.106 / 08.1993; Todavia, L’Eternauta n.119 / 03.1993 [Serie raccolta nel libro Buzzer & Todavia, Edizioni Interculturali, 03.2005] )
Perché, per quelle vignette hai adottato uno stile più aggressivo, segmentato, vicino sia a Tullio Pericoli che a Riccardo Mannelli?
Affinità a cui non pensai quando cominciai a disegnarle. Lo stile era un mix tra i personaggi snodati che proponevo nei cartoni animati e i personaggi disneyani con la vena grottesca portata all’esasperazione. L’inchiostrazione a pennarello piena di segni, grigi, volumi, ombre, doveva contraddire la sintesi infantile con cui i personaggi venivano costruiti. Ora che me lo dici, però, ricordo che a Tullio Pericoli dedicai una copertina apparsa su ComicArt. Il suo nome compariva, se non ricordo male, su una scatola di cioccolatini in mano a una farfalla cicciona.
Eri soddisfatto della tua prima storia disegnata per Topolino?
“Soddisfatto” è una parola grossa. Diciamo che, pur cogliendo la differenza tra le mie tavole e quelle dei professionisti, ero rassegnato al fatto che più di tanto non riuscivo a fare. Mi accontentavo senza disperazioni. Mi ricordo, però, che verso la ventesima pagina guardai con soddisfazione una vignetta. Sembrava “vera”. Si, insomma, intendo dire che sembrava una vignetta disegnata da quegli altri, quelli bravi. Ero riuscito finalmente a mettere i paperi in uno spazio, in maniera credibile. Mi esaltai, ma era stato un caso.
E le tue sceneggiatore per Disney come sono nate? Sono state determinate dal desiderio di comunicare dei concetti positivi a una platea vastissima e articolata come quella dei fumetti di Topolino?
Cerco di tenermi il più lontano possibile dai moralismi retorici e dal buonismo, anche se la morale dei personaggi Disney, compresa quella di Bum Bum, personaggio che più spesso di altri affronto nelle mie sceneggiature, è senz’altro una morale positiva.Non sempre l’equilibrio tra queste due cose è facile da gestire.
Ricordo una tua avventura bellissima, Paperino e il sinistro dottor Murdy. Nelle tue storie per Disney, c’è sempre una certa attenzione per il “diverso”, per il mostro.
Tutti temiamo i mostri. I diversi ci obbligano a prendere in considerazione un punto di vista diverso dal nostro e questo, nella deriva d’insicurezze in cui annaspiamo, ci terrorizza. Ma ci si deve sforzare di avere orizzonti più ampi. Ecco, volevo scrivere una storia dal punto di vista dei diversi. Non sono peggio di noi, non sono meglio di noi. Come tutti vivono e sbagliano (e infatti anche il dottor Murdy sbaglierà), solo che lo fanno con qualche problema in più.
Non ti sei mai tirato indietro, quando ti hanno chiesto di realizzare delle illustrazioni per campagne di taglio sociale, o civile. Ciò fa pensare che tu abbia una certa sensibilità per i problemi della gente e del mondo. Cosa ritieni che dovrebbe accadere, a livello globale, perché le cose girassero un po’ meglio?
Tra frizzi e lazzi mi fai una domanda che piega le ginocchia. Non so…Forse i paesi occidentali dovrebbero rinunciare a un poco di quel tanto che hanno per permettere, ai paesi con gravi problemi di sopravvivenza, una vita dignitosa. Invece di circondarci di armi nucleari che non riescono difenderci dal terrorismo, dovremmo mandare i nostri eserciti in giro per il mondo a ricostruire le infrastrutture, fornire acqua pulita e alimentare bambini affamati nei paesi che vivono delle realtà drammatiche. Il mondo sarebbe più sicuro.
Uno dei tuoi personaggi più amati è il proletario Bum Bum Ghigno. Mi dicono degli appassionati filologi che un tempo anche Luciano Bottaro aveva pensato a un personaggio con un nome simile. Il tuo è un omaggio al Maestro di Rapallo? E se no, come è nato quello strano nome?
La verità, molto semplicemente, è che Bum Bum doveva esaurirsi nella prima storia dove aveva il ruolo del cattivo che si redime. Il nome fu il risultato di cinque secondi di riflessione. Era un personaggio tra i tanti con un nome qualsiasi. Poi, prima che anch’io me ne rendessi bene conto, era diventato una star. Ma ormai aveva un nome da deficiente.
Mentre alcuni personaggi della commedia disneyana non hanno un’attività fissa, e non si sa nemmeno bene come facciano a guadagnarsi da vivere, Bum Bum fa un mestiere preciso. E non si tratta del giornalista o dell’investigatore… Il fatto di averlo reso imbianchino, o “pittore” come dice lui, lavoratore non di concetto e “proletario” (come si diceva un tempo) che significato ha?
Bum Bum non ha né la scaltrezza né l’inclinazione per fare il detective o il giornalista. Quello dell’imbianchino è un mestiere duro, certo, soprattutto quando non ti affidano mai un lavoro, ma è l’unica cosa che sa fare e lui, modestie a parte, la sa fare veramente male! In fondo è un’attività libera, senza vincoli, con grandi pause tra un lavoro e l’altro e rende credibili le sue avventure in giro per il mondo.
Sai che in alcune traduzioni delle tue storie fatte dagli editori del Nord Europa, Bum Bum è stato identificato con un immigrato, di probabile origine est europea, trasferitosi a Paperopoli?
Già, in Germania credo lo chiamino Sergei Schlamassi, e Grovfrans in Danimarca. Se proprio dovevano dargli delle origini diverse da quelle paperopolesi, avrei preferito delle origini italiane, ma mi piace l’idea che anche all’estero Bum Bum abbia un ruolo da emarginato.
Per crearlo, ti sei ispirato a qualche persona che conosci?
Vorrei precisare che il personaggio di Bum Bum non è nato a tavolino. Non è stato progettato per piacere, è nato e basta! Con un tassello alla volta ha preso forma, si è evoluto, si è arricchito. Non sapendo quali sviluppi avrebbe avuto, inizialmente non ho preso alcun riferimento. Col tempo però, mi sono accorto che, sempre più spesso, quando scrivevo le sceneggiature di Bum Bum pensavo ad una mia cara, vecchia conoscenza: un ex compagno di scuola delle elementari, ex compagno di scuola delle medie, complice di mille giochi scemi. Era lui il primo ad uscire sconfitto dalle interminabili partite a Risiko che facciamo ancora ogni tanto. Non farò il suo nome, non merita nessun tipo di popolarità, ma la sua ruvida sensibilità mi aiuta ad interpretare al meglio le avventure del nostro eroe.
Perché hai citato il Signor Bonaventura di Sergio Tofano, nella storia Paperino nel Bum dipinto di Bum, riprendendone anche l’antica struttura delle tavole con didascalie rimate? Tofano è pressoché sconosciuto ai lettori Disneyani, e così, anche, il remoto Corriere dei Piccoli.
La scintilla della curiosità è il combustibile che fa andare avanti il mondo. Immaginavo un bambino che con la sua rivista aperta chiedeva al papà una spiegazione per quelle pagine bizzarre. Immaginavo un papà intenerito al ricordo delle sue letture infantili dare delle spiegazioni esaurienti. Immaginavo uno sguardo complice tra il papà e il bambino. Lo so che le cose non saranno andate proprio così: il bambino avrà saltato la storia stizzito, il papà, che non ha mai letto un fumetto in vita sua, sarà tornato tardi dal lavoro. Avrà trovato il figlio addormentato e buona notte al secchio… Ma almeno, io ci ho provato!
Hai avuto problemi a far passare questa idea nella sceneggiatura?
Voleva essere solo un omaggio al signor Bonaventura, una delle colonne portanti del fumetto italiano, e la redazione l’ha capito. Quelle pagine con le didascalie rimate sono una citazione che si può anche non cogliere, la storia funziona lo stesso.
Parliamo di alcune delle illustrazioni presenti in questo volume. In qualche caso hai usato delle tecniche miste. Ricordo un tuo bellissimo quadro con Gambadilegno realizzato con vari materiali, in una specie di collage dipinto presentato a uno dei vari concorsi organizzati negli anni Novanta dalla Disney -Italia, per diretto impulso del Presidente, Umberto Virri. Era per te una specie di “sfogo”?
Non lavorare per un compenso, ed è il caso dell’opera in questione, da l’opportunità di sperimentare in piena libertà. Queste sono le rare occasioni in cui non ci deve preoccupare di piacere ad un committente. Il collage è un’arte antica e povera con straordinarie possibilità che io, da neofita, ho appena sfiorato.
Un’altra tua illustrazione superlativa è quella dove i personaggi Disney si arroccano in una torre medioevale, tentando di respingere l’assalto di altrettanti personaggi dei fumetti dalle provenienze più diverse. So che era designata per divenire un poster. Come ti è venuta l’idea?
Non doveva essere un poster. Come nel caso precedente nacque come opera per un concorso interno alla Disney. Ci veniva dato un tema e quell’anno suonava tipo…”Un periodo storico visto attraverso i personaggi Disney”. Scelsi il medioevo, si prestava alla gag. Volevo che avesse un sapore vagamente alla Mordillo in cui fossero rappresentati tutti, ma dico tutti, i personaggi Disney.
Tra le tue partecipazioni recenti c’è la collaborazione con le Edizioni IF, per le quali realizzi le copertine della rivista omonima, ma anche altro. In particolare, sono davvero molto apprezzabili quelle con i personaggi della Esse-G-Esse, come Blek Macigno e Capitan Miki. Con loro hai anche realizzato la bellissima copertina, pittorica, di un calendario del 2003. Parlaci di questa esperienza.
L’illustrazione nasce per essere venduta in litografia in duecento esemplari in un Cartoomics di qualche anno fa. Impiegai più ad autografare le duecento copie che a realizzare l’illustrazione. Non finivano mai. Esse-G-Esse, quanti ricordi… Il fratello grande di un mio compagno delle medie era un fanatico lettore di Blek e Miki. In una pigra estate riuscii a superare la sua diffidenza e farmi prestare un discreto numero di albi che divorai febbrilmente. Fu il mio primo impatto con i fumetti realistici, i fumetti per grandi, come pensavo allora. Un’iniziazione a dir poco entusiasmante. Mi ripromisi di seguirne l’uscita in edicola ma poco tempo dopo sarebbe arrivato l’Uomo Ragno a spazzare via tutto.
C’è qualche altro personaggio “storico” del Fumetto italiano che vorresti rivisitare a tuo modo? E perché?
Paperino, Topolino, Nick Raider, Magico Vento, Tex, Diabolik, Blek, Miki…Credo di potermi accontentare.

 

di Luca Boschi Percorsi n.4
Edizioni Il Penny (04.2004)


La prima volta che sento parlare di Corrado come fumettista (ma il suo nome era già circolato come illustratore, pubblicitario e non) è da Giovan Battista Carpi, che nella vecchia, onorata sede della redazione di “Topolino”, in Via Dante a Milano, mi spalanca sotto gli occhi una cartellina piena di tutto un po’: schizzi a matita, vignette sparse seminchiostrate, delicate illustrazioni ad Ecoline. “E’ un autore di Roma con uno stile già formato, che cercherà di piegarsi a Disney” mi dice, più o meno. Sono i primi mesi del ‘89, e il grande ufficio “aperto” con enormi tavoli luminosi e una scrivania dove Carpi tenta di lavorare, resistendo alle continue distrazioni e richieste che gli vengono dall’esterno, è un porto di mare, disegnare sul serio è una bella impresa, se non a tarda sera, quando finalmente si sono affrancati quasi tutti dalla schiavitù del lavoro e, quando questo turbine di persone è uscito dalla porta ci si può concentrare. Il Maestro ligure è impegnato nel reclutamento di nuovi talenti per quella che sarebbe diventata, di lì a non molto, la famosa Accademia Disney. Nel giro di qualche mese Mastantuono fornirà all’azienda del Topo dalle orecchie a disco un ampio numero di tavole, di disegni per copertine, anche un paio di storie, fra cui la prima, Zio Paperone e l’unica giovialità, che nell'estate del '90 esce sul n.1805 di “Topolino”, con i testi di Fabio Michelini. Se in queste sue prime tavole l’ispirazione all’opera di Giorgio Cavazzano balza subito agli occhi (con l’aggiunta di un inedito twist espressionista), l’impronta personale di Mastantuono si manifesta già in modo chiaro specie nei personaggi secondari, svincolati da rigidi modelli preesistenti. Sono figuranti della specie canina, tagliuzzati di rughe e inclini alla smorfia, spesso muniti di basette e baffoni alla Pedrito el Drito, con dentature evidenti e posture estremizzate. Ma nelle tavole di Mastantuono non mancano nemmeno i richiami più classici alla scuola italiana, riferiti in parte, specie nelle sue prime storie, proprio al Maestro Carpi. Ai suoi strali e ai suoi correttivi, Corrado può ripararsi più di altri colleghi perché troppo distante territorialmente dalla Disney, operando nel suo studio romano. Quindi, trova il modo di personalizzare a piacere le sue prove grafiche dei primi anni Novanta. Velocissimo, macina una storia dopo l’altra, lavora l’intera giornata, quando esce in pubblico sfuggendo alla morsa degli impegni, ha spesso l’aria stanca di chi ha “staccato” da poco.

Caro Corrado, sei a ragione considerato uno dei disegnatori più versatili d’Italia, per la facilità con la quale passi dal genere “naturalistico” a quello comico. Ne sei consapevole, immagino…

Faccio fatica a inquadrarmi come realistico o umoristico o grottesco. Sono un disegnatore e ho il privilegio di fare cose molte diverse tra loro, così non rischio di annoiarmi.


Parlaci del tuo primo contatto con Giovan Battista Carpi.

Arrivò una telefonata nella primavera del 1989. Risposi sgarbato. Ero stanco, avevo lavorato duramente e quella telefonata arrivava inopportuna. “Una scocciatura”, pensai. Dall’altra parte del filo una vocina si presentava, con discrezione, con eleganza. Era lui, Giovan Battista Carpi. Stetti zitto, ma qualcosa dovevo pur dire. “Carpi? Quel Carpi?”. Sorrise. Mi spiegò che la Disney cercava disegnatori e gli era stato recapitato del mio materiale dalla Mondadori che lui, bontà sua, trovava interessante. Di lì a poco, iniziai a collaborare con la Disney e mai dimenticherò le affettuose correzioni che Carpi mi impartiva per telefono. “Nella terza vignetta di pagina quattro, il becco di Paperino è troppo lungo. Accorcialo di un paio di millimetri”.


Quando hai cominciato a distaccarti dalla linea “classica” per avvicinarti a quella di Giorgio Cavazzano, per poi divenire “Mastantuono puro”?

I passaggi sono talmente sfumati, che è realmente difficile individuare il momento dei cambiamenti. Cavazzano è un disegnatore straordinario, era impossibile che inizialmente non condizionasse la mia maniera di interpretare Disney.


Quando vi siete conosciuti un po’ meglio, avete mai parlato con Cavazzano di questi tuoi esordi, o anche di questioni più tecniche, come l’impostazione delle tavole, o la grafica dei personaggi?

Giorgio è una persona troppo educata per manifestare una qualsiasi forma di rimostranza ma so che, all’inizio degli anni novanta, provava un certo fastidio di fronte all’esercito di esordienti che aveva iniziato a imitarlo. Ora, quando ci si ritrova, seduti a tavola o a passeggio tra degli stand, cerco ancora di carpirgli qualche segreto e lui, come tutti i grandi, condivide quello che sa con generosità.


Più volte hai riconosciuto come tuo primo, vero Maestro il grande Niso Ramponi, meglio conosciuto con lo pseudonimo di “Kremos”.

Ramponi, nel periodo in cui insegnava nella mia classe la tecnica del cartone animato, aspettava solo di andare in pensione. Generazioni di alunni indolenti e superficiali gli avevano tolto ogni entusiasmo. Ma che bello veder roteare la matita in quella mano e quanta invidia per quell’oblò perfetto accennato con due colpi di grafite. Ogni segno era una lezione d’arte, ogni schizzo un monumento al suo talento immenso. Non gli ho staccato mai gli occhi di dosso e con gli occhi ho rubato tutto quello che ho potuto. Tutti dovrebbero ammirare, almeno una volta, le spettacolari copertine a tempera che realizzava per il Travaso. Quasi tutto quello che so fare lo devo alle ore passate a guardare tutto quello che faceva Ramponi e al materiale che usava. Immagino che pochi sappiano cogliere la differenza tra lo schedario e la Cotton, tra il Bristol e la Schöeller, tra il Fabriano e la pergamena. Nella mia vita professionale, Ramponi è quello che più ha contribuito a chiarirmi le idee, la scelta dei cartoncini a confondermele.


Tu come ti orienti, con questi strumenti di lavoro? O meglio, come fai ad abbinare dei cartoncini alle esigenze che ti si presentano ogni volta? Li scegli in base alla loro “tenuta”, a come possono farti scorrere con facilità il pennello mentre inchiostri? Dacci qualche parametro.

Sono orientato verso tecniche classiche: pennino, pennello, china. Negli anni ho fatto scelte radicali che poi ho radicalmente cambiato. La combinazione degli elementi di lavoro è fortemente instabile. Io cerco ogni giorno l’alchimia giusta, la sinergia degli elementi nella proporzione che la ottimizzi. Divento matto. Un cartoncino risente dell’umidità, una boccetta di china della densità, un pennino cambia il proprio segno a seconda della superficie del foglio, della temperatura, del tempo, un pennello impazzisce, forma una doppia punta ingestibile, avvizzisce e muore. C’è stata la stagione dei bristol. Ci disegnavo i fumetti realistici che tenevano bene sia la china che il colore. Poi improvvisamente la cartoleria dalla quale mi servivo cambiò fornitore, o forse è lo stesso fornitore che cambiò sistema di produzione. Non lo so, ma sta di fatto che sul nuovo bristol la china prendeva male, si ribellava, si ritirava. Passai con sospetto alla Favini poi alla Fabriano, soprattutto per Bonelli. C’è stata la stagione della china Windsor & Newton perché costava di più e aveva boccette bellissime poi quella della Pelikan, duttile e fluida. C’è stata la stagione dello Schoeller-Durex che diventò introvabile, soppiantato dallo Schoeller-Hammer, più morbido, più abrasivo…Cambiai tutte le matite. Al posto delle morbide, le dure e al posto della dure quelle ancora più dure. Dieci minuti l’anno mi ritrovo con il pennello perfetto, la china diluita come meglio non si potrebbe e il cartoncino che non da brutte sorprese di trama o d’umidità e…disegno come un dio pagano. Dieci minuti, meno di mezza vignetta l’anno.


Soffermiamoci ancora su Niso Ramponi. Tu lo osservavi lavorare e cercavi di carpirne i segreti? O ti dava delle dritte, ti faceva capire dove sbagliavi, ti correggeva…? Un po’ come faceva Jijé con il suo giovane assistente Jean Giraud, che sarebbe divenuto Moebius…

Guardavo quello che faceva e assimilavo. Non mi ha mai corretto nulla per umiltà e pigrizia. Sarà da ricercarsi nella sua flemma il motivo per cui non diventerò mai un Moebius ma rimarrò mortale.


Ramponi era anche un grande disegnatore di donnine. Per il giornale satirico “Il travaso delle idee”, molto popolare negli anni del dopoguerra, si firmava “Kremos”, poi a un certo punto della sua carriera, cominciò a firmarsi “Niso”. Che cos’era accaduto?

Di questo fatto ho letto uno strano commento, fatto dal suo collega satirico Guglielmo Guastaveglia, in arte solo “Guasta”, che del “Travaso” era direttore. Scrive nella sua enciclopedia degli autori satirici che per ovviare a una incresciosa omonimia con un altro autore di nome Kremos, Ramponi decise di firmarsi col suo nome di battesimo… non so di più.


Puoi accennare al primo tuo periodo di attività come professionista? Ho una tua videocassetta, con il tuo vecchio logo a forma di lampadina, nella quale radunavi le tue prime animazioni pubblicitarie. Con chi lavoravi, a Roma, e in che modo, su quali temi?

Era il 1980 quando, a diciasette anni, venni assunto all’Ital-studio di Italo Burrascano come animatore grazie proprio a una segnalazione di Ramponi. In questo studio imparai a fare un po’ di tutto: story-board, scenografie, diapositive, marchi, illustrazioni, oltre naturalmente ai cartoni animati, motivo per il quale ero stato arruolato. Nell’85, sempre continuando il lavoro con lo studio, cominciai a realizzare in proprio piccole animazioni per le emittenti private. Un periodo irripetibile, pieno di energia ed entusiasmo. Arrivavo a disegnare diciotto ore al giorno…uno zombi, ne pago ancora le conseguenze!


Da piccolo, come molti ragazzi della tua generazione, sei stato rapito dai fumetti. Qual era il tuo personaggio preferito? Quale la serie?

Geppo, Gianconiglio, Paperinik, Braccio di ferro, Hulk… ma un solo personaggio mi ha fulminato veramente…l’Uomo Ragno! Pur non essendo mai stato un collezionista, posseggo l’intera serie Corno fino al n.250. Del tessiragnatele collezionavo tutto, strisce giornaliere, gomme da masticare, poster. Arrivai a convincere mia mamma a cucire il suo vestito per il mio pupazzo preferito di allora, Big Jim. Ora, su un altarino, di fronte al tavolo da lavoro, campeggia un disegno originale della striscia quotidiana dell’Uomo Ragno disegnata da John Romita, doveroso tributo per il più accattivante dei disegnatori Marvel. Di personaggi da serie televisive a cartoni invece ce ne sono molti, un esempio su tutti, il primo, il più grande, Atlas Ufo Robot.


Le prime tue storie a fumetti che ho letto appartengono al ciclo Cargo Team, che veniva pubblicato a episodi dalla Comic Art. Cosa ricordi circa la nascita (e l’esecuzione) di quella serie?

Nel ‘91 Rodolfo Torti era il direttore artistico e Roberto dal Prà supervisore letterario della ComicArt. Insieme controllavano tutto il materiale nuovo che arrivava in redazione e vagliavano giovani autori e serie nuove. Capitò così che un esordiente, Arcangelo Stigliani, e un quasi esordiente, io, per un paio d’anni demmo vita a Cargo Team, serie fantascientifica con grandi ambizioni limitate dall’inesperienza di entrambi. Mi divertii molto a disegnarla anche se all’inizio dovetti misurarmi con la scrittura copiosa di Stigliani che concedeva poco spazio al disegno. Quando finalmente aggiustammo entrambi il tiro venne sospesa. La casa editrice, dopo un’importante flessione di vendite, interrompeva la produzione di materiale nuovo e decideva di continuare solo le pubblicazioni estere. Amen.


Vi si notava una certa ascendenza dalla linea americana classica e dalla lezione di Jordi Bernet?

Di Bernet, come di tutta la scuola spagnola e argentina, Font, Ortiz, de la Fuente, ho sempre amato la gestione dei bianchi e neri, fondamentale per la riuscita grafica di una tavola. A questo riguardo il grande Alberto Breccia ne spiegava l’uso nel fumetto in maniera geniale: “Bisogna mettere il nero dove c’è il bianco e il bianco dove c’è il nero”. Paradossale quanto volete ma l’equilibrio tra queste due negazioni del colore è alla base della filosofia del fumetto. Quando se ne carpisce il segreto l’opera diventa immortale.


Chi consideri i tuoi disegnatori di riferimento, almeno nel primo periodo della tua attività?

Sono tantissimi gli autori che ho negli anni amato: Scarpa, Cavazzano, Carpi, Jacovitti, Magnus, Franquin, Quino, Nine, Uderzo e Pazienza, Romita, Magnus, Milazzo, Manara, Breccia Senior, Mandrafina, Zaffino, Bernet, Moebius.


Il tuo primo contatto con la Bonelli è avvenuto con una illustrazione per la mostra Ridere di Paura, nel ‘93. Dalla redazione mi chiesero i tuoi recapiti, perché il tuo stile piaceva moltissimo ai dirigenti della Bonelli, in particolare a Renato Queirolo. Che cosa è accaduto, dopo? Hai dovuto calibrare una nuova grafica “alla Mastantuono” appositamente per un format popolare bonelliano?

Quella con la casa editrice Bonelli è stata un’altra sfida difficilissima. Fino a quel momento, per la ComicArt, avevo sviluppato un tipo di segno graffiato. Amavo suggerire più che raccontare. Ora, invece, dovevo confrontarmi con un lettore diverso. Il lettore bonelliano avrebbe accolto con indignazione le mie sperimentazioni. Dovevo rivedere tutto. Con tanta pazienza e con l’aiuto di Queirolo, ho messo a punto negli anni un tipo di disegno che cerca di sposare appieno le esigenze della casa editrice, ma senza snaturarmi.


Queste doverose revisioni hanno, a loro volta, interagito con la tua linea grafica “libera”? Di solito un autore porta sempre con sé tutto il bagaglio delle sue esperienze, riverberandole sul prossimo lavoro. Così, per fare un esempio illustre, le tavole di Blueberry del Moebius passato attraverso Il garage ermetico di Jerry Cornelius, sarebbero state diverse senza l’esperienza di “Métal Hurlant”

Ho la presunzione di cercare di tenere isolate le mie diverse vite creative. Maniacalmente separo nella mia testa anche il materiale e gli strumenti che servono per i diversi lavori. Se inizio a disegnare la vignetta mensile per la rivista Tal-dei-tali col pennarello e carta da lay-out continuerò ad usare lo stesso stile e gli stessi identici materiali per tutto il periodo del lavoro, anche per anni. Ma il condizionamento c’è. Le contaminazioni sono inevitabili. Quel segno sperimentato con successo nel disegno realistico cambia e modifica in maniera impercettibile ma determinante anche il disegno umoristico.


Come sei entrato in contatto con Gianfranco Manfredi, a proposito di Magico Vento?

Attraverso il curatore della serie. Sempre lui, Queirolo.


E com’è avvenuta l’interazione con Manfredi? E’ uno sceneggiatore meticoloso ed esigente, o ti lascia molto spazio?

Avevo collaborato con lui già in un albo per Nick Raider (La rosa gialla del Texas, n.121 /06.1998) e mi ero trovato a mio agio. Dopo le storie per Magico Vento, Manfredi è l’autore Bonelli con il quale ho più collaborato. Per mia fortuna non è di quelli che si accanisce in descrizioni rigorose. Lascia sufficiente libertà d’interpretazione. Forse eccede con la richiesta di figure intere dall’alto. Quando posso cerco di accontentarlo ma il più delle volte, dopo averci ripetutamente provato, devio verso soluzioni a me più gradite.


Quali sono gli aspetti più positivi e soddisfacenti della partecipazione a una serie come Magico Vento che è molto apprezzata dai lettori e dalla critica, e che può contare su uno staff di disegnatori davvero eccellente?

Stai scherzando? Nessuno! Affrontare un fumetto western significa conoscere alla perfezione ogni singolo oggetto da disegnare ricercando all’infinito immagini e foto del periodo. Anche le atmosfere polverose sono difficili da rendere. Lo sporco, il sudore, il sacrificio dei primi pionieri deve sgorgare convincente dalla pagine, senza compiacimenti grafici, senza esitazioni di sorta. Un inferno! Ma devo ammettere che Magico Vento è riuscito a coinvolgermi a tal punto da farmi dimenticare la fatica. Diventare il copertinista della serie è quanto di più bello mi poteva capitare.


Se non erro, la tua prima storia pubblicata per la Bonelli è un episodio breve di Nick Raider, uscito come supplemento sulla rivista Amico treno. E’ così?

In realtà, la prima storia che ho fatto per la Bonelli è stata Un uomo nel mirino, per la serie mensile Nick Raider (n.74 / 07.1994 / testo: Claudio Nizzi). Nel rivedere quelle pagine, quasi non mi riconosco… Ma non sono proprio malvagie.


Cosa ti appaga maggiormente, nel disegno di una tavola, di una storia? Dove trovi più difficoltà e dove più gusto?

La difficoltà più grossa rimane sempre la documentazione. Sono pigro e tendo, dove posso, a sopperire con la fantasia. Non dovrei. Invece, mi piace molto passare da un genere all’altro, mi rinnova l’entusiasmo.


Prima di sperimentarla per Topolino, la tua vena di sceneggiatore era già molto “pressante”? Penso alle vignette satiriche che realizzavi per la ComicArt…

Mi è sempre piaciuto scrivere. Esordii con dei racconti autoconclusivi per la ComicArt, per poi proseguire con una serie a colori per un’altra rivista della stessa casa editrice, L’Eternauta. La serie si chiamava Buzzer & Todavia (-Il droppo, ComicArt n.91 / 05.1992; King Kong la grande scimmia, ComicArt n.106 / 08.1993; Todavia, L’Eternauta n.119 / 03.1993 [Serie raccolta nel libro Buzzer & Todavia, Edizioni Interculturali, 03.2005] )


Perché, per quelle vignette hai adottato uno stile più aggressivo, segmentato, vicino sia a Tullio Pericoli che a Riccardo Mannelli?

Affinità a cui non pensai quando cominciai a disegnarle. Lo stile era un mix tra i personaggi snodati che proponevo nei cartoni animati e i personaggi disneyani con la vena grottesca portata all’esasperazione. L’inchiostrazione a pennarello piena di segni, grigi, volumi, ombre, doveva contraddire la sintesi infantile con cui i personaggi venivano costruiti. Ora che me lo dici, però, ricordo che a Tullio Pericoli dedicai una copertina apparsa su ComicArt. Il suo nome compariva, se non ricordo male, su una scatola di cioccolatini in mano a una farfalla cicciona.


Eri soddisfatto della tua prima storia disegnata per Topolino?

“Soddisfatto” è una parola grossa. Diciamo che, pur cogliendo la differenza tra le mie tavole e quelle dei professionisti, ero rassegnato al fatto che più di tanto non riuscivo a fare. Mi accontentavo senza disperazioni. Mi ricordo, però, che verso la ventesima pagina guardai con soddisfazione una vignetta. Sembrava “vera”. Si, insomma, intendo dire che sembrava una vignetta disegnata da quegli altri, quelli bravi. Ero riuscito finalmente a mettere i paperi in uno spazio, in maniera credibile. Mi esaltai, ma era stato un caso.


E le tue sceneggiatore per Disney come sono nate? Sono state determinate dal desiderio di comunicare dei concetti positivi a una platea vastissima e articolata come quella dei fumetti di Topolino?

Cerco di tenermi il più lontano possibile dai moralismi retorici e dal buonismo, anche se la morale dei personaggi Disney, compresa quella di Bum Bum, personaggio che più spesso di altri affronto nelle mie sceneggiature, è senz’altro una morale positiva.Non sempre l’equilibrio tra queste due cose è facile da gestire.


Ricordo una tua avventura bellissima, Paperino e il sinistro dottor Murdy. Nelle tue storie per Disney, c’è sempre una certa attenzione per il “diverso”, per il mostro.

Tutti temiamo i mostri. I diversi ci obbligano a prendere in considerazione un punto di vista diverso dal nostro e questo, nella deriva d’insicurezze in cui annaspiamo, ci terrorizza. Ma ci si deve sforzare di avere orizzonti più ampi. Ecco, volevo scrivere una storia dal punto di vista dei diversi. Non sono peggio di noi, non sono meglio di noi. Come tutti vivono e sbagliano (e infatti anche il dottor Murdy sbaglierà), solo che lo fanno con qualche problema in più.


Non ti sei mai tirato indietro, quando ti hanno chiesto di realizzare delle illustrazioni per campagne di taglio sociale, o civile. Ciò fa pensare che tu abbia una certa sensibilità per i problemi della gente e del mondo. Cosa ritieni che dovrebbe accadere, a livello globale, perché le cose girassero un po’ meglio?


Tra frizzi e lazzi mi fai una domanda che piega le ginocchia. Non so…Forse i paesi occidentali dovrebbero rinunciare a un poco di quel tanto che hanno per permettere, ai paesi con gravi problemi di sopravvivenza, una vita dignitosa. Invece di circondarci di armi nucleari che non riescono difenderci dal terrorismo, dovremmo mandare i nostri eserciti in giro per il mondo a ricostruire le infrastrutture, fornire acqua pulita e alimentare bambini affamati nei paesi che vivono delle realtà drammatiche. Il mondo sarebbe più sicuro.


Uno dei tuoi personaggi più amati è il proletario Bum Bum Ghigno. Mi dicono degli appassionati filologi che un tempo anche Luciano Bottaro aveva pensato a un personaggio con un nome simile. Il tuo è un omaggio al Maestro di Rapallo? E se no, come è nato quello strano nome?


La verità, molto semplicemente, è che Bum Bum doveva esaurirsi nella prima storia dove aveva il ruolo del cattivo che si redime. Il nome fu il risultato di cinque secondi di riflessione. Era un personaggio tra i tanti con un nome qualsiasi. Poi, prima che anch’io me ne rendessi bene conto, era diventato una star. Ma ormai aveva un nome da deficiente.


Mentre alcuni personaggi della commedia disneyana non hanno un’attività fissa, e non si sa nemmeno bene come facciano a guadagnarsi da vivere, Bum Bum fa un mestiere preciso. E non si tratta del giornalista o dell’investigatore… Il fatto di averlo reso imbianchino, o “pittore” come dice lui, lavoratore non di concetto e “proletario” (come si diceva un tempo) che significato ha?


Bum Bum non ha né la scaltrezza né l’inclinazione per fare il detective o il giornalista. Quello dell’imbianchino è un mestiere duro, certo, soprattutto quando non ti affidano mai un lavoro, ma è l’unica cosa che sa fare e lui, modestie a parte, la sa fare veramente male! In fondo è un’attività libera, senza vincoli, con grandi pause tra un lavoro e l’altro e rende credibili le sue avventure in giro per il mondo.


Sai che in alcune traduzioni delle tue storie fatte dagli editori del Nord Europa, Bum Bum è stato identificato con un immigrato, di probabile origine est europea, trasferitosi a Paperopoli?


Già, in Germania credo lo chiamino Sergei Schlamassi, e Grovfrans in Danimarca. Se proprio dovevano dargli delle origini diverse da quelle paperopolesi, avrei preferito delle origini italiane, ma mi piace l’idea che anche all’estero Bum Bum abbia un ruolo da emarginato.


Per crearlo, ti sei ispirato a qualche persona che conosci?

Vorrei precisare che il personaggio di Bum Bum non è nato a tavolino. Non è stato progettato per piacere, è nato e basta! Con un tassello alla volta ha preso forma, si è evoluto, si è arricchito. Non sapendo quali sviluppi avrebbe avuto, inizialmente non ho preso alcun riferimento. Col tempo però, mi sono accorto che, sempre più spesso, quando scrivevo le sceneggiature di Bum Bum pensavo ad una mia cara, vecchia conoscenza: un ex compagno di scuola delle elementari, ex compagno di scuola delle medie, complice di mille giochi scemi. Era lui il primo ad uscire sconfitto dalle interminabili partite a Risiko che facciamo ancora ogni tanto. Non farò il suo nome, non merita nessun tipo di popolarità, ma la sua ruvida sensibilità mi aiuta ad interpretare al meglio le avventure del nostro eroe.


Perché hai citato il Signor Bonaventura di Sergio Tofano, nella storia Paperino nel Bum dipinto di Bum, riprendendone anche l’antica struttura delle tavole con didascalie rimate? Tofano è pressoché sconosciuto ai lettori Disneyani, e così, anche, il remoto Corriere dei Piccoli.

La scintilla della curiosità è il combustibile che fa andare avanti il mondo. Immaginavo un bambino che con la sua rivista aperta chiedeva al papà una spiegazione per quelle pagine bizzarre. Immaginavo un papà intenerito al ricordo delle sue letture infantili dare delle spiegazioni esaurienti. Immaginavo uno sguardo complice tra il papà e il bambino. Lo so che le cose non saranno andate proprio così: il bambino avrà saltato la storia stizzito, il papà, che non ha mai letto un fumetto in vita sua, sarà tornato tardi dal lavoro. Avrà trovato il figlio addormentato e buona notte al secchio… Ma almeno, io ci ho provato!


Hai avuto problemi a far passare questa idea nella sceneggiatura?

Voleva essere solo un omaggio al signor Bonaventura, una delle colonne portanti del fumetto italiano, e la redazione l’ha capito. Quelle pagine con le didascalie rimate sono una citazione che si può anche non cogliere, la storia funziona lo stesso.


Parliamo di alcune delle illustrazioni presenti in questo volume. In qualche caso hai usato delle tecniche miste. Ricordo un tuo bellissimo quadro con Gambadilegno realizzato con vari materiali, in una specie di collage dipinto presentato a uno dei vari concorsi organizzati negli anni Novanta dalla Disney -Italia, per diretto impulso del Presidente, Umberto Virri. Era per te una specie di “sfogo”?

Non lavorare per un compenso, ed è il caso dell’opera in questione, da l’opportunità di sperimentare in piena libertà. Queste sono le rare occasioni in cui non ci deve preoccupare di piacere ad un committente. Il collage è un’arte antica e povera con straordinarie possibilità che io, da neofita, ho appena sfiorato.


Un’altra tua illustrazione superlativa è quella dove i personaggi Disney si arroccano in una torre medioevale, tentando di respingere l’assalto di altrettanti personaggi dei fumetti dalle provenienze più diverse. So che era designata per divenire un poster. Come ti è venuta l’idea?

Non doveva essere un poster. Come nel caso precedente nacque come opera per un concorso interno alla Disney. Ci veniva dato un tema e quell’anno suonava tipo…”Un periodo storico visto attraverso i personaggi Disney”. Scelsi il medioevo, si prestava alla gag. Volevo che avesse un sapore vagamente alla Mordillo in cui fossero rappresentati tutti, ma dico tutti, i personaggi Disney.


Tra le tue partecipazioni recenti c’è la collaborazione con le Edizioni IF, per le quali realizzi le copertine della rivista omonima, ma anche altro. In particolare, sono davvero molto apprezzabili quelle con i personaggi della Esse-G-Esse, come Blek Macigno e Capitan Miki. Con loro hai anche realizzato la bellissima copertina, pittorica, di un calendario del 2003. Parlaci di questa esperienza.

L’illustrazione nasce per essere venduta in litografia in duecento esemplari in un Cartoomics di qualche anno fa. Impiegai più ad autografare le duecento copie che a realizzare l’illustrazione. Non finivano mai. Esse-G-Esse, quanti ricordi… Il fratello grande di un mio compagno delle medie era un fanatico lettore di Blek e Miki. In una pigra estate riuscii a superare la sua diffidenza e farmi prestare un discreto numero di albi che divorai febbrilmente. Fu il mio primo impatto con i fumetti realistici, i fumetti per grandi, come pensavo allora. Un’iniziazione a dir poco entusiasmante. Mi ripromisi di seguirne l’uscita in edicola ma poco tempo dopo sarebbe arrivato l’Uomo Ragno a spazzare via tutto.


C’è qualche altro personaggio “storico” del Fumetto italiano che vorresti rivisitare a tuo modo? E perché?

Paperino, Topolino, Nick Raider, Magico Vento, Tex, Diabolik, Blek, Miki…Credo di potermi accontentare.


 

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