UBC intervista Mastantuono- 05.2004
Un curriculum davvero variegato e moltissimi progetti in ballo, ma prima di iniziare a parlare di questi argomenti, una breve presentazione per i lettori di UBC: chi è Corrado Mastantuono e che formazione hai avuto?
Sono un disegnatore che spazia molto. Ho imparato a fare cartoni animati alla scuola professionale statale “Cine TV” dove mi sono diplomato nel 1980. Quello di animatore è stato un mestiere che ho praticato per una decina d’anni. Nel 1989, con l’avvento della computer grafica, pur di continuare a tenere una matita in mano, ho mollato tutto e mi sono presentato alla casa editrice ComicArt che mi ha tenuto a battesimo nel mondo dei fumetti. Da allora, a tutt’oggi, continuo a lavorare per la carta stampata.
Da "L'Eternauta" alla Disney, dalla Sergio Bonelli a Les Humanoides Associés: sei sicuramente uno degli autori più versatili e dinamici del panorama contemporaneo. Svelaci il tuo segreto: come fai a passare da un progetto all'altro, da una casa editrice all'altra in un batter di ciglia, e senza mai perdere in qualità?
Lavoro molto e cerco di non annoiarmi mai lavorando. Questo è il semplice segreto che, unito alla curiosità insaziabile che mi porta a sperimentare instancabilmente, mi ha aiutato a confrontarmi con i monoliti del fumetto nazionale con passione e umiltà.
Per Topolino ti sei pian piano affrancato come autore completo inventando tra l'altro il divertentissimo personaggio di Bum Bum Ghigno. Come è nato il personaggio? Che cosa introduce di nuovo nel panorama disneyano?
Bum Bum Ghigno nasce con la storia “Paperino e la macchina della conoscenza” (Topolino n. 2172, 15.07.1997) nel ruolo impopolare di cattivo dell’episodio. Nel finale c’è il pentimento e l’espiazione ma non in maniera del tutto convincente. Si intuisce tra le righe che Bum Bum ci gode a scontrarsi con le etichette e il bon-tòn. Forse fu questo il motivo che lo fece risultare particolarmente simpatico alla redazione che mi chiese di riproporlo in storie successive. Nel folto panorama disneyano Bum Bum aggiunge, dove possibile, l’aspetto pecoreccio, l’opaco pressapochismo di un papero provocatorio, trasgressivo. Bum Bum è indolente come Paperino, arrogante come Paperone, ottuso come Paperoga. Partendo da elementi già esplorati con altri personaggi egli li rinnova culminando in quello che forse è il vero aspetto innovativo: la pervicace attrazione verso tutto quello che è contro. Riesce a essere infido, amorale, gretto e tutto sempre con assoluta mancanza di stile. Uno così o lo ammazzi o te ne innamori o entrambe, ma non in quest’ordine.
Bum Bum è un personaggio "grigio", buono ma non completamente capace di effettuare sempre scelte "giuste". Quanta libertà ti viene lasciata dalla redazione di Topolino nel tratteggiare un carattere così difficile da classificare nello schema buoni-cattivi? Quanto è difficile rimanere nei paletti del "politically correct" con un personaggio così?
Con lui gioco continuamente sul filo del rasoio e, non di rado, sono incappato in lecite censure per la sua ruvida sensibilità che risultava troppo estrema per una rivista come Topolino che meriterebbe profili più rassicuranti.
Dopo anni da disegnatore o da autore completo, per Topolino hai iniziato a scrivere anche sceneggiature da far disegnare ad altri: com'è il rapporto con i disegnatori quando sottoponi loro una sceneggiatura?
Tutti i disegnatori che hanno affrontato una mia sceneggiatura, ancora prima che essere colleghi, sono amici. Il gioco di queste collaborazioni è cominciato con Stefano Intini che aveva inserito pretestuosamente Bum Bum come comparsa in alcune sue storie. L’esperienza è stata entusiasmante per entrambi e alla prima occasione ho cercato di rinnovarla coinvolgendo gente del calibro di Cavazzano, Freccero, Faccini. Hanno accettato senza neanche lamentarsi troppo. Io per sdebitarmi ho cercato di creare delle storie su misura per loro. Con Faccini ho sbagliato di due taglie.
Cosa cambia tra lo sceneggiare per se stessi o per un altro?
Quando sceneggio per me divido la storia in vignette e scrivo i dialoghi. Ambienti, recitazione, inquadrature, sono scolpite nella memoria e sarebbe solo una perdita di tempo fissarle su carta. Le sceneggiature destinate ad altri invece sono molto tradizionali: comprendono i dialoghi, gli stati d’animo e i movimenti in campo. Tutto quello che serve per fornire una regia che, pur senza essere soffocante, guidi a una narrazione visiva fluida.
Sceneggi tramite storyboard o attraverso descrizioni scritte?
Solo scritte, per carità. Ci mancherebbe solo che mi mettessi a disegnare anche dove è superfluo. Trovo le sceneggiature disegnate fortemente condizionanti. Imbrigliano la fantasia del disegnatore con soluzioni necessariamente sbrigative. Meglio l’astrazione narrativa, risulta essere molto più evocativa.
Ci puoi invece raccontare qualcosa di una tua tipica giornata lavorativa da disegnatore?
Sveglia alle 8,00/8,30. Intorno alle nove sono sul tavolo di lavoro dove rimango inchiodato fino alle 14,00. Mangio qualcosa in coincidenza con i Simpson e poi mi concedo un riposino di un quarto d’ora/mezz’ora. Alle quattro mi rimetto a lavoro fino almeno alle 20,30. Così tutti i giorni, sabato compreso.
Alcuni preferiscono realizzare prima l'intera storia a matita e poi ripassarla a china... c'è chi disegna accuratissimi storyboard... tu come lavori, in genere?
In genere preferisco completare l’intera storia a matita prima di affrontarla con la china. Questo per una ragione strettamente pratica. Il responsabile della redazione ha il tempo di visionare i disegni a matita dell’intero episodio. In caso di rimaneggiamenti le correzioni saranno più agili e indolori. Non mi servo di story-board ne di disegni preparatori. Disegno direttamente sulla tavola, progressivamente, una vignetta dopo l’altra, partendo da quella in alto a sinistra a scendere. Il mio lavoro è quasi maniacale tanto che non posso saltare una vignetta ne lasciarla incompleta prima di passare a quella successiva.
C'è un genere in particolare che preferisci disegnare o con cui ti senti più a tuo agio?
Qualsiasi genere che non preveda sfinenti ricerche per la documentazione. Sono pigro e, anche se non dovrei, tendo a sopperire con la fantasia.
In genere, come dividi il lavoro con lo sceneggiatore e il colorista (quando è presente)?
Dove possibile cerco di seguire il più fedelmente possibile le indicazioni della sceneggiatura. Per rispetto e per una naturale divisione dei compiti. Non mi faccio scrupolo d’intervenire solo quando ritengo che ne guadagnerà la narrazione. Tranne rarissimi casi, ho sempre cercato di coinvolgere il meno possibile lo sceneggiatore in problemi che, con un minimo d’impegno, potevo risolvere da solo. Per quanto riguarda i colori, tranne ora per la Francia, non sono mai potuto intervenire direttamente sulle mie storie. Forse è un bene. Sono troppo pignolo per i tempi di uscita di un periodico.
Una domanda più specifica che riguarda proprio il colore: che tecnica usi per le copertine?
Quando ho ereditato le copertine di Nick Raider da Bruno Ramella con il n.100, per un discorso di continuazione mi sono sentito in dovere di riprendere la sua tecnica. Si trattava di un grosso vignettone in bianco e nero. Si allegava una fotocopia con le indicazioni per i colori che poi sarebbero stati riprodotti al computer. Il risultato era spesso deludente e poco a poco convinsi la redazione che realizzare delle vere illustrazioni a colori sarebbe stato un salto di qualità per la testata.
C'è stato un certo cambiamento tra le cover di Nick Raider rispetto a quelle di Magico Vento: la colorazione è in entrambi i casi tua?
La colorazione è sempre mia ma la tecnica è completamente diversa. Per Nick Raider, come dicevo, si è optato per una illustrazione a tempera, materica, con un gioco di pennellate per far risaltare le atmosfere. Con Magico Vento, anche per non confondere i lettori, era necessario un taglio completamente diverso. Mi è stato chiesto di mantenere il contorno nero, scomparso invece su Nick Raider, e una grande cura del particolare. Quello che ho proposto è una tecnica che prevede il disegno realizzato a mezzatinta a matita e colorato al computer. Il risultato finale mi ha fruttato un premio Fumo di China e ha incontrato il favore dei lettori esigenti della serie e di questo non posso che essere orgoglioso.
Ci puoi anticipare qualcosa in merito al tuo progetto francese, "Elias il maledetto", di prossima pubblicazione per i tipi della Vittorio Pavesio?
Un ambiente medievale fuso a elementi meccanici e moderni. Antico e moderno in una collocazione temporale impossibile da effettuare. Nessun tipo di documentazione, neanche iconografica e questa volta non perché sono pigro ma per non aver nessun tipo di condizionamento. L'idea di non studiare la produzione del fumetto fantasy con i suoi stilemi e il suo linguaggio visivo nasce proprio dall'esigenza di non ripetere un percorso tracciato da altri. Conservare il sapore del genere affrontandolo con gli occhi sgombri da immagini, solo un pizzico di memoria. Spero che il prodotto risulti per questo sufficientemente originale senza per questo tradire le attese degli amanti del fantasy.
Restando nell'argomento, che ne pensi quindi di questa espansione degli italiani verso la Francia (come te, ad esempio, Giovanni Gualdoni, Luca Enoch e Mario Alberti, solo per citarne alcuni)?
I Francesi continuano a meravigliarsi di come, un paese che ha sviluppato solo fumetto commerciale, sforni tanti bravi disegnatori. Non so quanto durerà ma avere l’opportunità di potersi esibire in un contesto dove il fumetto non ha niente da invidiare alla narrativa infonde un’energia straordinaria.
Quali sono le differenze maggiori, a livello fumettistico e lavorativo, tra Francia e Italia?
Di fruizione. In Italia il fumetto è necessariamente popolare. Grandi tirature per un pubblico variegato e, spesso, distratto. Il linguaggio si semplifica e disegnatori geniali e innovativi suscitano ancora indignazione. In Francia il lettore è attento, più pronto a sperimentare. Si innamora del libro oppure lo contesta, ma è sempre presente e vigile. Banalizzando si potrebbe dire che in Italia siamo diventati dei maestri a fare telefilm mentre in Francia vengono prediletti senza discussione i lungometraggi. Poi sul fatto che un buon telefilm surclassi un film mediocre non ho dubbi, ma i fatti restano.
"Elias il maledetto" rappresenta una sorta di ritorno alle origini: il tuo esordio in Comic Art nel 1990 avveniva infatti proprio con il respiro del formato alla francese; quali sono le principali differenze con i lavori eseguiti per Disney e Bonelli?
Alla ComicArt, come adesso con la Francia, ero un autore, con tutta la libertà espressiva che questo concede. Era un periodo incredibile in cui i lettori amavano l’autore e non il personaggio. In Italia ora ci si può trovare in situazioni limite in cui si è rapiti da una serie senza interessarsi di chi la scrive o la disegni. Si confondono gli autori o, peggio, s’ignorano. Sotto un profilo decisamente più pratico, tra i vecchi lavori per la ComicArt e la produzione seriale, c’è poca differenza: i lavori venivano pagati di più, ci si metteva di più a realizzarli e costavano di più al lettore che però aveva un prodotto notevolmente più curato. Tutto torna e infatti le riviste contenitore in Italia hanno chiuso, eh, eh.
Lo stile adottato per Elias echeggia sensibilmente la cosiddetta "scuola argentina" (della quale fanno parte anche un nutrito gruppo di autori italiani) che in Francia, pur con le dovute eccezioni (Pratt in primis), ha sempre ricevuto una accoglienza abbastanza tiepida (penso in questo caso soprattutto a Milazzo, il cui segno è sempre risultato indigesto ai francesi). Hai già avuto qualche riscontro in merito da pubblico e critica?
Non ho mai nascosto il mio amore per la scuola argentina che trova la sua massima espressione nelle storie in bianco e nero. I neri carichi stagliano le forme e l’eleganza del segno sopravvive anche alla scarsa qualità della stampa. Mandrafina, Enrique e Alberto Breccia, Bernet, Zaffino, sono stati dei caposcuola. Per Elias ho dovuto invece rifarmi alla tradizione franco-belga della linea-chiara e il segno sottile, per la quasi totale mancanza di campiture nere, si fa carico di rappresentare ogni cosa. Il disegno si mette al servizio del colore. Ne è venuto fuori un prodotto particolare, differente da ogni cosa fatta in precedenza ma comunque vicino all’idea che avevo. Credo che sia fondamentle capire a quale pubblico ci si stia rivolgendo. Nel mio caso lo sforzo è stato ripagato. Elias è stato accolto con calore dal pubblico francese anche se i dati di vendita ancora li ignoro. Comunque, a conferma di come cambiano i tempi, anche Milazzo ha firmato per una storia con la casa editrice Les Humanoides associés.
Il colore costituisce una componente molto importante ai fini narrativi, soprattutto nella tradizione francofona: sei soddisfatto della colorazione delle tavole di Elias? In questo caso come è avvenuto il lavoro?
Credo che il lavoro del colorista Jean-Jaques Rouger sia stato curato e attento. Jean-Jaques è subentrato in un secondo momento. Inizialmente i colori della storia erano stati affidati a un'altro autore francese di cui non ricordo il nome. "Siamo fieri di essere riusciti a strapparlo alla concorrenza!" fu il suo biglietto da visita. Pare che fosse un vero fenomeno ma quando vidi le prime prove di colore ebbi un tuffo al cuore. Le tavole erano lavorate in maniera sbrigativa con un uso spropositato di areografo. Cercai di manifestare le mie perplessità con misura, senza urtare la sensibilità dell'autore. Per molto tempo non seppi più nulla dei colori dell'albo. Solo un anno dopo Brunò Lecigne, il direttore artistico, mi confessò che quelle prove non avevano convinto loro per primi e, nonostante fossero già state prodotte una ventina di tavole a colori, si ricominciò da zero puntando su un giovane esordiente, Jean-Jaques Rouger. Mi innamorai subito del suo lavoro fatto con personalità e buon gusto. I miei interventi si sono limitati alla correzione delle ombre dei personaggi, a qualche fondo e a far risaltare i dettagli qua e là.
Le tue interpretazioni degli storici personaggi del fumetto popolare italiano (Akim, Blek e Miki) sulle copertine delle ristampe delle Edizioni IF rappresentano un efficacissimo esempio di "riscrittura visiva" del genere: ovvero come aggiornare l'eroe al gusto odierno senza negarne la classica matrice avventurosa. A tuo avviso, una proposta di nuove avventure di questi personaggi con un taglio narrativo allineato a questa tua "versione" potrebbe raccogliere il favore dei lettori o si ritroverebbe a contare sul seguito dei soliti nostalgici?
Per non snaturare un personaggio come Blek o Miki non ci si può allontanare troppo dalle radici. Si rischierebbe di deludere lo zoccolo duro dei lettori senza necessariamente riuscire a incuriosire quelli nuovi. Cercare nuovi modi per interpretarli è una grossa responsabilità, sono tra i simboli del fumetto italiano e stravolgerli un po’ vuol dire anche rinnovarli. Ma forse questo discorso si può limitare alle copertine. Le storie devono poter contare su quella ingenuità, quel linguaccio semplice degli albori che poi è la base del fumetto popolare.
Ora che Nick Raider sarà editato dalle Edizioni IF, tu continuerai la collaborazione? Nel caso, sarà limitata alle copertine o anche ai disegni dei nuovi episodi annunciati?
Non ne ho ancora parlato col nuovo editore Gianni Bono.
Hai qualche altro progetto in mente di cui ci vuoi mettere a parte?
Ahimè, è già due anni che sono al lavoro su un "Texone" e sono solo alla metà dell'opera. Comunque, oltre al secondo libro già in lavorazione di "Elias il maledetto” sto preparando, sempre con Les Humanoides Associés, un progetto umoristico dal titolo "Le petit Pierre” realizzato a quattro mani con Stefano Intini. Mi occuperò solo della sceneggiatura mentre i disegni impegneranno il bravissimo Stefano. A marzo poi uscirà, in occasione di Napoli Comicon per le Edizioni Interculturali, una versione rinnovata e riadattata di una serie a colori pubblicata su L’Eternauta e ComicArt: Buzzer & Todavia. E’ un’occasione imperdibile per far incontrare i due galeotti col pubblico allora troppo giovane.
C'è qualche personaggio, bonelliano e non, con il quale vorresti cimentarti, sia ai testi sia ai disegni?
Tutti quelli che non ho ancora rovinato.
Che ne pensi della tanto pubblicizzata crisi del fumetto italiano? Secondo te esiste davvero, oppure è solo un luogo comune ormai generalizzato nell'ambiente?
"C'è crisi!". E' un ritornello che mi sento ripetere da sempre. Certo, il momento non è dei più rosei per la deriva economica che il paese sta attraversando e per la miriade di distrazioni, play-station, DVD, VHS, giochi di ruolo e quant'altro, che un ragazzino può avere ai nostri giorni. Ritengo però il fumetto un media che nella sua unicità manterrà delle posizioni di privilegio nelle attenzioni del giovane pubblico. L'uscita di una moltitudine di lungometraggi di successo legati al fumetto super-eroistico americano, X-men, Spiderman, Devil, Hulk, Hellboy...non è che un piccolo aspetto dell'enorme potenzialità ancora inespressa. Non nego che ci sia una stasi preoccupante nel panorama italiano che ripete clichè produttivi sulla scia di albi di successo ma fenomeni come quello francese o la rinascita di quello statunitense confermano che, di fronte a prodotti di qualità, i ragazzi sono ancora molto attenti.